martedì, ottobre 07, 2008

chiuse parentesi

Eccoci qua, sull’uscio di questo piccolo bar. Sono passati parecchi mesi. Gli ultimi da clandestino, nascosto. Ottenere la cittadinanza è come diventare maggiorenni. Ti aspetti che la tua vita cambi all’istante e ti accucci in una contemplativa e silenziosa attesa, e in fine nulla, non ti cambia niente, giusto un poco il morale forse (e in peggio anche). Comunque eccoci qua, di nuovo all’uscio di questo bar a fumare una sigaretta. E’ un bar piccino ma grazioso, ricorda vagamente una sorta di bazar oltremare ed è confortevole quanto un bordello egiziano, o almeno così come io mi immagino uno di questi bordelli d’inizio secolo. Sull’uscio siamo io, Crudelia DeMon e Fantozzi. Fantozzi è un radiologo crumiro, tipico romano cinquantenne (definizione che verrà chiarita piùavanti), Crudelia DeMon è Crudelia DeMon. Entrambi sono appoggiati ai due lati della larga porta mentre io rimango un passo indietro seduto nell’anticamera piegato dalla noia e dal dolore al ginocchio con la mia sigaretta di tabacco a coprirmi il volto. Nulla di quello che viene detto merita di essere ricordato e il tempo passa senza passare. Due quindicenni passando si fermano e cercando il mio sguardo perso in mezzo ai due sull’uscio mi fanno: ei zii! C’hai ‘na cartina? Solo corte! Rispondo io tra i denti e quelle deluse mentre a me viene un brivido. Devo essere onesto con me stesso, ho smesso di fumare come certi amanti smettono di fare all’amore. E forse mi si legge in faccia, o forse sono solo stanco e dolorante o forse sto progettando la mia fuga e proprio non riesco a esserlo. Ho chiesto aiuto alla coerenza ma questa mi ha detto che la risposta è dentro di me! Ma come… e se è sbagliata? Il dolore al ginocchio per fortuna non mi fa pensare ad altro e per quello c’è quell’amaro alla rucola che la signora DeMon custodisce gelosamente così come io custodisco la mia riservatezza, finendo sempre per raccontare tutto, o quasi. Di come ho perso casa o di come da brigante mi sono rotto le ossa e subito dopo ho spergiurato ottenendo così una nuova cittadinanza, su questa città e sul fatto dei romani che vanno sempre do se magna gratis o di come Tommasino er Capretta sia entrato nella mia vita.
Non è facile essere onesti con se stessi. Come domenica scora, quando ho disertato la marcia contro il razzismo. Conscio del mio passato e dei miei ideali ho preferito evitare la pioggia e rimanere a casa a fare il pane, certo una occupazione altrettanto nobile, ma ho saputo dopo che quasi tutti i romani (chiaramente esclusi quelli che vanno a picchiare i cinesi in giro per strada, e non ne sarei poi tanto sicuro) hanno trovato come me una scusa e si sono presentati solo al concerto finale (benedetto dal buontempo) mentre pullman di manifestanti tornavano in ogni parte del paese con il loro bagaglio di speranze.
E comunque, mi dico, il mio ginocchio non mi avrebbe permesso tanta esuberanza, non sono andato neanche al concerto, non mi sentivo abbastanza romano per farlo e sono rimasto a casa, una casa che non è più mia, mentre il mio posto è stato preso da Tommasino. Tommasino lo chiamano er Capretta perché con lo skate salta come una capretta e perché puzza come una caprone. Il poveraccio ha una disfunzione ghiandolare ai piedi, a nulla sono servite le punture di botulino e i specialisti di tutto il mondo non sono riusciti a risolvere il tanto grave quanto raro problema. Emarginato dagli emarginati e non tanto per la puzza sotto ai piedi (o sotto il naso come in altri casi) ma per l’inettitudine delle sue parole, che sicuro non sono coerenti con i pensieri (sperando che questi siano un po’ più nobili) ma le stesse, anche se dallo schieramento opposto, del radiologo crumiro.
Lascio la signora DeMon con Fantozzi a conversare sull’uscio del bar e vado dietro il mio piccolo bancone a prepararmi una sigaretta del mio tabacco eco-sostenibile (altra ipocrisia per fumare facendosi un po’ meno male) ma le dita mi scivolano sulla cartina. I polpastelli sono lisci come di ceramica per le troppe lavastoviglie fatte. A quel punto decido di riprendermi tutto.